DDL Povertà, la mia relazione in Aula

Martedì 12 Luglio 2016 4668

La collega Giacobbe ha descritto perfettamente il contenuto del Disegno di Legge. Io vorrei soffermarmi sul quadro generale in cui si inserisce quanto andiamo a discutere in aula, confidando che anche le opposizioni vogliano soffermarsi su quegli elementi che caratterizzano il dibattito sul welfare europeo e italiano da moltissimi anni, senza scadere nella propaganda disgiunta dal merito.

Il DDL disegna una misura universale di contrasto alla povertà, a cui arrivare con il graduale aumento del Fondo istituito con la legge di stabilità del 2016. Abbiamo fatto la scelta di disgiungere il dibattito sulla prima misura universale di contrasto alla povertà da quello sulla riforma della spesa per l’assistenza, proprio per evitare che l’importanza della creazione di un intervento così determinante potesse essere offuscata dalle polemiche che inevitabilmente qualsiasi intervento di bilancio suscita. Quella delle risorse necessarie è una discussione che dovrà essere affrontata, naturalmente, ma non dobbiamo cadere nell’errore di ridurre la discussione a una mera questione economica.

Proverei dunque a partire da ciò che accomuna tutti i paesi europei e anche le proposte di legge sul tema del contrasto alla povertà depositate in questa legislatura dai vari gruppi politici: la condizionalità alla prova dei mezzi effettuata sulla base del nucleo familiare, e all’accettazione di progetti di reinserimento lavorativo e sociale. Un reddito minimo di inserimento con queste caratteristiche, declinato in forme molto diverse tra loro, è presente in tutti i paesi europei e esistono varie raccomandazioni e risoluzioni dell’Unione Europea che spingono nella direzione dell’introduzione obbligatoria di una misura di reddito minimo in tutti i paesi.

In nessun paese, invece, né in Europa, né nel mondo, esistono esperienze di reddito di cittadinanza, che è un reddito di base elargito dalla comunità a tutti i suoi membri su base individuale, senza prova dei mezzi o richiesta di impegno al lavoro. Vale a dire che verrebbe assegnato allo stesso modo a poveri e ricchi, che non sarebbe condizionato a nessun impegno, e che l’importo sarebbe uguale per tutti, a prescindere dall’ammontare del reddito del destinatario. La stessa esperienza dell’Alaska, in cui si suddivide in parti uguali una parte dei proventi della vendita del petrolio, è piuttosto ascrivibile a un esperimento di dividendo sociale, piuttosto che di reddito di cittadinanza.

Senza nulla togliere alla legittimità dell’ipotesi di un reddito di cittadinanza, dobbiamo dirci che ci troveremmo in un campo mai esplorato, e che pone – al di là dei problemi relativi alle enormi risorse necessarie alla copertura e al conseguente cambiamento strutturale di tutto il sistema fiscale e di quello di welfare – seri problemi etici e di compatibilità costituzionale, perché dovremmo ipotizzare una società divisa in due gruppi, uno che lavora e l’altro che potrebbe scegliere di non farlo; e dovremmo considerare attentamente le ricadute sul sistema produttivo una volta modificato profondamente il valore che la società attribuisce al lavoro. Questioni enormi, serie, che però non sono all’ordine del giorno.

Perché anche chi si dice favorevole al reddito di cittadinanza, come il M5S, ammette che per poter attuare il modello ideale di un reddito universale, individuale e incondizionato, occorre una radicale riforma dell’ordinamento tributario e del sistema sociale, e pertanto propone un reddito minimo condizionato alla prova dei mezzi e all’obbligo di attivazione, teso a combattere la povertà e l’esclusione sociale.

Credo che definire una proposta di reddito minimo con l’appellativo di reddito di cittadinanza serva solo a creare confusione, sia una forzatura che non aiuta a confrontare le posizioni in campo.

Quello su cui si deve ragionare, e su cui ci si può dividere, è come realizzare una misura di contrasto alla povertà in un Paese, l’Italia, che ha visto molti tentativi, per ragioni diverse, fallire. Noi siamo convinti che occorra affrontare il tema facendo tesoro dell’importante lavoro messo a punto da tanti esperti del settore, e tenendo conto delle esperienze (peraltro come già detto molto diverse tra loro) degli altri paesi europei.
A cominciare dalla scelta della soglia, che noi riteniamo giusto individuare nella povertà assoluta, definita volutamente nel provvedimento come la condizione in cui non si dispone di sufficienti beni e servizi tali da garantire una vita dignitosa, e non in quella relativa, che è indicata secondo la definizione Eurostat come il 60% del reddito mediano. La maggior parte dei Paesi europei ha misure di contrasto alla povertà che coprono una quota di reddito che si attesta mediamente attorno al 50% e non al 100% della soglia di povertà relativa.
Naturalmente, si può essere in disaccordo con questa impostazione, purché si tenga conto della realtà: nulla può impedire di proporre soluzioni più impegnative di quelle dei paesi europei che gestiscono misure di reddito minimo da decenni. Noi però preferiamo attestarci su ciò che riteniamo possibile, e praticare una via che tenga conto dell’esperienza degli altri paesi e della situazione specifica italiana.

Perché non è che in Italia non sia mai esistita una politica di contrasto alla povertà: a livello nazionale ha avuto, tuttavia, un approccio categoriale, e oltre agli interventi per disabili e anziani (per cui ricordiamo lo stanziamento per prestazioni di reddito minimo ammonta a più di 4,5 miliardi, escludendo le integrazioni al minimo inserite nel sistema previdenziale) ha visto nascere molti provvedimenti particolari rivolti a piccoli segmenti di popolazione; la politica del “minimo vitale”, cioè rivolta a tutti, invece, è stata delegata agli Enti Locali, che hanno fatto fronte al compito nei modi più diversi, creando una situazione di inaccettabile disparità tra un territorio e l’altro. Abbiamo così una selva di direttive o leggi regionali e di regolamentazioni dei Comuni, tutte basate su criteri diversi per l’accesso, l’importo, la durata e cosi via.
Se vogliamo davvero arrivare al traguardo di una misura unica che garantisca gli stessi diritti a tutti coloro che si trovano nella medesima situazione di difficoltà, non si può prescindere dall’interazione con questo quadro.
E’ quindi fondamentale la scelta di puntare per la gestione della misura su una forte collaborazione tra i vari livelli istituzionali (Stato, Regioni e Comuni) e a una forte integrazione tra soggetti diversi (Comuni, Centri per l’impiego, Asl, Terzo Settore etc.) a livello degli ambiti distrettuali così come individuati dalle leggi regionali in recepimento delle indicazioni della Legge 328/00. E’ in questi ambiti territoriali che si sono sviluppate le migliori competenze per gestire un nuovo modello di welfare, incentrato sull’attivazione dei destinatari e sulla partecipazione alla progettazione di tutti coloro che operano concretamente nel settore. Certo, c’è molta strada da fare. E anche qui, non è solo una questione di risorse: si parla spesso dei 21 diversi sistemi di welfare che caratterizzano ormai il nostro Paese, mettendo in luce le grandi differenze che si sono create sul territorio nazionale, a discapito della garanzia dei diritti sociali a tutti i cittadini. Dato che i trasferimenti statali alle regioni dei Fondi per le politiche sociali sono proporzionalmente gli stessi, occorre andare più a fondo nell’analisi dei motivi di questa disparità. Di sicuro, si tende a sottovalutare il ruolo che la modalità di gestione svolge nell’efficacia del sistema di welfare locale. Le Regioni che hanno agito nel senso di sostenere forme di gestione associata e stabile tra i comuni, sono quelle in cui i risultati delle politiche sociali e sociosanitarie risultano migliori. Ma in questi anni non sono state poche le norme dettate dal legislatore nazionale che hanno contribuito a complicare il quadro normativo e posto rilevanti difficoltà per alcuni modelli di gestione associata dei servizi sociali operanti in diversi territori con ottimi risultati. Per questo nel DDL abbiamo inserito norme finalizzate a mettere Regioni e Comuni nelle condizioni di poter scegliere le forme di gestione più efficaci, che sole possono garantire la stabilità del personale specializzato capace di mettere in atto una governance dei servizi basata su programmazione, gestione, monitoraggio e valutazione, inserendola nella stretta collaborazione con gli altri servizi e soggetti territoriali così da poter rendere effettiva la presa in carico delle persone in stato di bisogno.

Sappiamo anche che la lotta alla povertà, e ancor prima al rischio di impoverimento, non si esaurisce in una misura universale di reddito minimo: dagli ammortizzatori sociali alle politiche attive, dalle politiche abitative a quelle sanitarie, dagli interventi per la non autosufficienza al sostegno alla famiglia, sono solo le questioni più importanti che interagiscono profondamente con le possibilità di successo della nostra misura.
E’ molto importante non riversare sulla misura di contrasto alla povertà aspettative che devono essere assicurate da vari strumenti di welfare. E va anche evitato di scegliere indicatori sbagliati per valutarne l’efficacia. L’obiettivo è la diminuzione della povertà e l’inclusione sociale, e il tasso di reinserimento lavorativo non è l’unico fattore da tenere in considerazione. Peraltro, la scelta di dare priorità ai nuclei familiari con minori deriva proprio dalla scelta di puntare innanzitutto sulla possibilità di cambiare le opportunità di vita di quest’ultimi. Vorrei essere chiara: agire nell’aspettativa di ottenere da subito risultati paragonabili a quelli raggiunti da paesi come Danimarca o Olanda, che non hanno problemi di alta disoccupazione e di arretratezza strutturale di intere parti del territorio, significa non darci nessuna chance di cambiamento, che può avvenire solo con pazienza, misura, conoscenza della realtà e anche un po’ di buon senso.

E dico chiaramente che stiamo compiendo un primo passo, non siamo al traguardo. Ma dopo tanti anni in cui il grande progetto riformatore degli interventi e dei servizi sociali dettato dalla Legge 328/00 è stato disperso dalla noncuranza di governi che hanno portato i fondi destinati alle politiche sociali quasi all’azzeramento, riducendo il concetto di welfare a una visione caritatevole dell’assistenza, oggi finalmente oltre a rimettere un consistente segno “più” davanti agli stanziamenti, intraprendiamo una strada da cui confidiamo sarà impossibile tornare indietro. A tutti coloro che credono nel valore fondamentale del welfare, al punto di dedicarvi tempo e fatica ben oltre gli obblighi di lavoro, chiediamo di aiutarci in questo cammino che non sarà semplice ma potrà ricostruire il senso delle nostre comunità verso quella visione solidale fondativa del modello sociale europeo, di cui dobbiamo andare fieri.


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